Mi chiamo Rose ho tredici anni e sono originaria di Kisangani, nel cuore della Repubblica Democratica del Congo (RDC). La mia, era una famiglia numerosa e per noi la vita non era affatto semplice. A causa dei continui conflitti e della profonda insicurezza il lavoro scarseggiava e mio padre non riusciva a provvedere al sostentamento di tutti noi. La paura di non farcela e le poche garanzie sulla nostra sicurezza l’hanno spinto a prendere la dura decisione di farmi trasferire a Bukavu, a più di 600 km da Kisangani. Li abitava una sorella minore di mio padre, mia zia Amina. Dagli accordi presi con mio padre, io avrei dovuto aiutare in casa e accudire i miei piccoli cuginetti in cambio della sua ospitalità e delle sue cure.

I primi tempi tutto andava per il meglio, mi mancavano i miei cari e i miei amici di Kisangani ma ero serena. Questa serenità termino un giorno di ottobre quando mio zio ebbe un grave incidente in moto e da quel momento iniziarono le difficoltà. Le liti tra i miei zii si intensificarono e iniziarono ad accusarmi di essere la causa della malasorte in famiglia, mi chiamavano la strega. Iniziarono le violenze, psicologiche all’inizio, ma ben presto divennero anche fisiche. Violenze che non si limitavano alle mura domestiche, anche i vicini di casa erano aggressivi con me. Finalmente un giorno la polizia venne in mio soccorso e mi condusse al foyer Ek’Abana dove incontrai altre ragazzine che avevano vissuto quello che stavo vivendo io. Mi trovai subito a mio agio e con le animatrici mi sentii protetta, finalmente al sicuro, non avevo più paura. Ripresi ad andare a scuola e trascorsi le miei giornate come tutte le altre bambine della mia età, tra studio, giochi, danza e piccoli lavori di casa, e capii che non eravamo delle streghe ma solo delle bambine sfortunate.

Gli animatori di Ek’Abana organizzavano spesso incontri con i familiari di noi bambine, ma mia zia Amina non partecipava mai. Ogni volta speravo di vederla entrare dalla porta, ma temevo non le interessasse nulla di me. Il tempo passava e le mie speranze di rivedere Amina si affievolivano finché un giorno varcò quella porta e la mia fu una reazione di paura e corsi a nascondermi. Dopo oltre un anno di mediazioni mia zia era pronta a riprendere i contatti con me, ma il mio timore di subire nuovamente vessazioni e angherie era forte e presente. Desideravo essere felice, volevo solo una famiglia in grado di amarmi e non subire più quelle accuse insulse.

Suor Natalina, la responsabile del centro Ek’Abana decise di contattare la mia famiglia di origine e dopo lunghe ricerche Natalina riuscì a contattare i miei genitori. Mio padre e mia madre non sapevano nulla di quanto mi era accaduto, l’indignazione e la delusione nei confronti dei miei zii era profonda e chiesero a Natalina di portarmi da loro.

Grazie all’intervento della Croce Rossa Internazionale fu possibile acquistare il biglietto aereo e insieme ad altri bambini salimmo su un aereo dell’ONU che ci condusse a casa, la vera casa, dove mi aspettavano i miei genitori e dove potevo ricomiciare a vivere una vita normale. Quella che avevo sempre sognato.