“Mi chiamo Srey Neath, ho 14 anni e da un anno lavoro in una fabbrica di abbigliamento vicino a Sihanoukville. Ho smesso di studiare per aiutare la mia famiglia: devo lavorare da lunedì a sabato per 10 ore al giorno, a volte di più se l’azienda ha bisogno che facciamo gli straordinari. La maggior parte delle persone che lavorano con me sono ragazze della mia età”.
Iniziava così la testimonianza di una giovanissima operaia raccolta nella primavera 2015 dal responsabile delle nostre attività in Cambogia, Nicolas Saunier. Una testimonianza che oggi torna di attualità e che vogliamo riproporre integralmente, vista l’entrata in vigore – dal 1° gennaio 2017 – del nuovo salario minimo per gli operai delle fabbriche di abbigliamento e scarpe dei grandi marchi internazionali.
Da questo mese il salario per gli operai di queste aziende, per lo più di proprietà e conduzione cinese e destinate a esportare i loro prodotti nei paesi occidentali, non potrà essere inferiore a 150 dollari americani, circa 140 euro al mese, per 10 ore di lavoro al giorno, sei giorni la settimana.
L’aumento corrisponde al 9% della paga precedente ma è ancora lontano dalle aspettative dei sindacati del settore, che da alcuni anni lottano tenacemente per difendere i diritti di questi lavoratori, sottoposti ad abusi e a condizioni di sfruttamento e discriminazione. Solo due anni fa il salario mensile per i lavoratori che producono le nostre t-shirt e i nostri jeans era di soli 73 euro, cifra a cui del resto sono tuttora fermi gli stipendi in molti altri settori, ancora privi di qualsiasi regolamentazione, come agricoltura, edilizia e ristorazione.
“Mi chiamo Srey Neath, ho 14 anni e lavoro in una fabbrica di abbigliamento vicino a Sihanoukville.
La mia famiglia vive in un piccolo villaggio nel distretto di Prey Nub, dove i miei fratelli e sorelle più piccoli vanno ancora a scuola. Io ho smesso di studiare l’anno scorso, ho iniziato la scuola secondaria, ma la scuola era troppo costosa e troppo lontana da raggiungere ed era molto impegnativo continuare a frequentare le lezioni. E poi alcune persone dicevano che la scuola non era il posto per una ragazza di una famiglia povera come la mia, e che avrei fatto meglio ad aiutare i miei genitori, invece che pensare a studiare. Così, dallo scorso dicembre, faccio l’operaia in una fabbrica che è di proprietà di un’azienda cinese, e devo lavorare da lunedì a sabato per 10 ore al giorno, a volte di più se ci vengono richiesti gli straordinari. La maggior parte delle persone che lavorano con me sono ragazze della mia età, o poco più grandi, e giovani donne, e ci sono più di 1.600 persone che ci lavorano”.
Quello del vestiario è il settore economico più importante: l’80% del prodotto viene esportato all’estero.
È il settore più grande in Cambogia, quello del vestiario che esporta all’estero l’80% del prodotto. I proprietari e i dirigenti preferiscono assumere giovani ragazze perché sono “lavoratori” più diligenti dei ragazzi, sin da piccole sono abituate ad aiutare in famiglia a cucinare e pulire, mentre i maschi possono giocare con gli altri bambini.
Formalmente, per trovare lavoro in una fabbrica bisogna aver compiuto 15 anni, ma è un limite spesso non rispettato, come racconta la stessa Srey Neath: “Quando ho fatto domanda per questo lavoro ho dovuto mentire sulla mia età, e i miei genitori hanno dovuto pagare il capo del villaggio per far sì che cambiasse la data di nascita sui miei documenti”.
È pratica molto diffusa in Cambogia quella di falsificare i documenti. Solo il 4% delle fabbriche viene multato per lavoro minorile, ma tutti sanno che ci sono ragazze sotto i 15 anni che lavorano in tutte le fabbriche del Paese.
“La ragione per cui sono andata a lavorare in una fabbrica di abbigliamento è perché è l’unico posto in Cambogia dove posso guadagnare una bella somma di denaro. Anche se il mio salario non è molto, solo 128 dollari americani al mese, vengo pagata per gli straordinari, e per questo guadagno quasi il doppio di quello che guadagnerei come cuoca o cameriera in un ristorante.
Da quando ho iniziato a lavorare spendo circa $70 al mese per l’affitto, i trasporti, gli alimenti, l’elettricità e l’acqua, e prodotti base come lo shampoo e la polvere per la lavatrice, il resto lo invio alla mia famiglia. Mio padre ha potuto chiedere in prestito dei soldi per comprare un motorino di seconda mano per il suo lavoro, così anche la sua vita è più semplice da quando lavoro. Il mio lavoro è molto duro e le mie giornate sono davvero difficili ma spero di poter mantenere questo lavoro perché è necessario alla mia famiglia per stare meglio. Alcuni dei miei colleghi pensano che dovremmo essere pagati almeno $50 in più al mese, ma alcuni dei più anziani dicono che non dovremmo chiedere troppo, perché temono che altrimenti l’azienda si sposterebbe in un altro paese e così le nostre vite diventerebbero anche peggio…
Le condizioni in cui lavoriamo ogni giorno sono molto dure. La fabbrica ha così tanti lavoratori che non c’è abbastanza aria, soprattutto nel pomeriggio c’è molto caldo. Sono spesso assetata ma non posso sempre prendere una pausa per andare a bere dell’acqua perché non ci sono abbastanza fontanelle, e se il mio supervisore mi vede lasciare la postazione troppo spesso vengo ripresa”
Due terzi dei lavoratori nell’industria di abbigliamento non mangia a sufficienza, e più del 40% soffre di anemia.
“Il mese scorso una delle mie colleghe stava male”, prosegue il racconto, “perché era incinta ed è svenuta alla sua postazione, e questo mi ha fatto davvero paura. Devo sempre indossare una maschera per via dei fumi che provengono dai reagenti chimici usati sui vestiti. Un’altro problema è che nella fabbrica c’è molto rumore. Però ho sentito dire che la mia fabbrica non è poi così male, perché almeno le misure anti incendio sono in regola così noi siamo salvi in caso ci sia un problema, e poi l’edificio è nuovo. Le fabbriche peggiori sono quelle piccole che non sono legalmente registrate e non devono seguire nessuna regola per proteggere i dipendenti.
Quando la mia giornata lavorativa è finita, di solito verso le 18.00, prendo un affollato camioncino che mi riporta al mio appartamento che condivido con alcune colleghe, a circa 5 Km dalla fabbrica. È un viaggio turbolento e non c’è spazio per sedersi, perché tutti tornano a casa alla stessa ora e con lo stesso mezzo. Dobbiamo stare molto attenti e tenerci forte, nel caso il camioncino dovesse frenare bruscamente. Nell’appartamento viviamo in 6, non c’è spazio perché è molto piccolo, ma almeno in questo modo non mi sento sola, e possiamo cucinare insieme i nostri pasti e risparmiare un po’. Mi piacciono molto le mie compagne di stanza, anche se le conosco solo da qualche mese. Ci diamo una mano a vicenda, quando ci sentiamo male. Io sono molto fortunata perché le mie coinquiline sono tutte brave ragazze.
Anche se è una vita molto difficile per me, e spesso mi sento molto stanca, proverò con tutte le mie forze a tenere il mio lavoro in modo da supportare la mia famiglia, e se tutto va bene i miei fratelli e sorelle più piccoli potranno stare a scuola più a lungo di me e trovare un lavoro migliore in futuro”.