Hanno atteso settimane prima di scappare dalle loro case. Hanno sperato che gli attacchi dei gruppi armati rimanessero solo una voce arrivata da qualche villaggio lontano o che risparmiassero la gente comune limitandosi a depredare gli uffici governativi, le banche e i mercati. Quando le case hanno iniziato a bruciare e la violenza non poteva più essere ignorata, hanno abbandonato tutto: campi e attrezzi per coltivare, barche e reti da pesca, case, vestiti, documenti… Hanno dovuto persino lasciare indietro i più anziani della famiglia perché non avrebbero resistito a una lunga fuga nella foresta. Questo è quello che hanno vissuto molte delle famiglie rifugiate nei centri di reinsediamento del distretto di Mueda, a Nord di Cabo Delgado (Mozambico).
Famiglie come quella di Laura, che con gli occhi ancora pieni di orrore ci ha raccontato la sua storia: “I miei figli e io aspettavamo la notte per uscire dal nostro nascondiglio. Percorrevamo le stradine secondarie tra i recinti di paglia senza fare rumore. Quando arrivavamo a un incrocio ci sporgevamo per vedere se in fondo non ci fosse qualcuno. Il villaggio era ormai deserto. Molti se n’erano andati già da tempo. Raggiungevamo una casa all’estremità del villaggio, dove le case si inoltrano nella foresta. Entravamo dalla porta sul retro per poi raggiungere la piccola sala. Mia madre ci aspettava lì. Le avevamo portato da mangiare come ormai facevamo da qualche giorno. A volte, prima di rientrare a casa, ci dovevamo nascondere e attendere che passasse qualche gruppo armato che pattugliava le strade. Quando arrivano al villaggio in genere si fermano qualche giorno, minacciano la gente, bruciano qualche casa, razziano il mercato e dopo se ne vanno. Mia madre non ce l’avrebbe mai fatta a scappare, sarebbe stato un viaggio troppo lungo. Al decimo giorno mi convinse ad andare via, se fossimo rimasti avrebbero bruciato anche la nostra casa. Dopo un mese di cammino abbiamo raggiunto il centro di Mueda”.
Mentre ci racconta la loro storia, Laura e la sua famiglia stanno cercando di costruirsi un’altra casa con dei tronchi e dei teli che hanno ricevuto al centro di reinsediamento di Eduardo Mondlane. Ci dicono che non hanno più notizie della nonna, vorrebbero tornare ma hanno troppa paura.
Nei primi mesi del 2021, l’offensiva dei gruppi armati si è concentrata nelle zone intorno a Palma: migliaia di persone sono state costrette a scappare, aggiungendosi alle numerose che dalla costa si erano ormai stanziate nei distretti a sud e nel centro della provincia, presso le famiglie o nei centri di transito sorti e rapidamente cresciuti negli anni precedenti. A metà del 2021 la situazione già precaria è stata ulteriormente destabilizzata dall’intervento coordinato delle forze governative e dei Paesi alleati che, riprendendo il controllo di alcune zone di Palma e Mocimba da Praia, hanno disperso le milizie di ribelli. Affamate e senza leader, le milizie si stanno spostando verso le zone più interne, saccheggiando villaggi e isolando intere aree che negli anni precedenti non erano mai state coinvolte nel conflitto.
Molti dei centri di reinsediamento nel quale lavoriamo sono rimasti inaccessibili per vari giorni, costringendo gli sfollati ancora una volta a muoversi verso zone più sicure. Gli attacchi sono ora meno intensi ma più imprevedibili, un fattore che condiziona la qualità e il coordinamento degli interventi umanitari.
Da marzo 2021 siamo presenti nel distretto di Mueda concentrando i nostri sforzi in quattro centri di transito e reinsediamento gestiti dal Governo. In essi si riversano tutte le famiglie scappate dalle zone di conflitto e che non hanno altri luoghi sicuri in cui rifugiarsi. Sono famiglie arrivate dopo mesi di fuga a piedi o che si sono fatte accompagnare da pulmini e camion usando i pochi soldi che rimanevano loro o che ha mandato qualche parente. Quando arrivano ai centri, stanche e malnutrite, non hanno niente, al massimo qualche vestito. La nuova vita che hanno di fronte pone ancora altre sfide.
I centri di reinsediamento possono raggiungere e superare rapidamente le 10.000 persone. In aree dove prima si estendevano alberi, cespugli, campi di mais, si aprono sentieri, strade, nascono piccoli mercati, distese di tende e case di paglia e legno in poco tempo. Dimensioni e caratteristiche paragonabili a piccole città con la differenza che sono senza alcun tipo di servizio idrico e igienico-sanitario. Sono caotici e sovraffollati. Prima di ricevere un proprio spazio dove costruire la nuova abitazione, le famiglie sono costrette a ore di coda per procurarsi qualche litro di acqua, per potersi lavare e accedere ai bagni pubblici.
Negli ultimi mesi abbiamo lavorato per assicurare a questi nuovi centri abitativi servizi idrici e igienici essenziali. Insieme a UNICEF e agli uffici pubblici distrettuali per la gestione idrica abbiamo riscontrato una situazione critica per quanto riguarda la disponibilità di acqua nel distretto di Mueda. La zona si estende su un altopiano nel quale lo scorrimento di acque superficiali è quasi inesistente, mentre le falde acquifere sono molto profonde e poco sfruttate.
Negli anni era stato costruito un sistema di raccolta e di distribuzione che sfrutta le acque superficiali e profonde presenti alla base dell’altopiano, per poi condurle fino ai villaggi tramite un sistema di pompe, cisterne e condotte. L’infrastruttura è però logora per la scarsa manutenzione e piena di perdite e falle lungo tutta la rete; ciò causa una riduzione della pressione, insufficiente a coprire la domanda idrica messa ancora di più in crisi dall’arrivo di migliaia di rifugiati.
L’accesso all’acqua è stato così garantito dal water trucking (trasporto di acqua tramite camion), dalle cisterne per la raccolta di acqua piovana e da interventi di riabilitazione e di allacciamento della rete idrica pubblica ai centri di reinsediamento, nel quale sono state collocate delle cisterne e dei punti di distribuzione. Nelle zone ai piedi dell’altopiano è stato possibile perforare due pozzi di 20 metri di profondità collocati in due quartieri nati all’estremità di un piccolo villaggio in seguito all’arrivo di 900 famiglie.
Nel nord del distretto, dal villaggio di Negomano, al di là del grande fiume Rovuma, si scorgono le lievi colline della Tanzania. Da più di un anno il ponte che unisce le due sponde è percorso da centinaia di mozambicani che cercano disperatamente di fuggire in Tanzania, ma vengono ricondotti in Mozambico dalla polizia tanzaniana che pattuglia costantemente il confine.
Qui è sorto un centro di transito che accoglie tutti quelli che non hanno la possibilità di proseguire verso zone più sicure. Nel corso del 2021 abbiamo riabilitato un sistema idrico alimentato da pannelli solari, a pieno regime è in grado di rifornire il villaggio e il centro.
Nei quattro centri dove lavoriamo ci siamo occupati anche di garantire servizi igienici di emergenza come latrine e bagni, oltre che a promuovere la costruzione di servizi privati per le famiglie che hanno deciso di rimanere per un periodo lungo. Per tutelare l’igiene personale e dignitose condizioni di vita abbiamo distribuito kit contenenti sapone, dentifrici, spazzolini, prodotti per il trattamento dell’acqua, coperte, indumenti intimi, assorbenti e lampade portatili. Per ogni centro abbiamo formato attivisti comunitari responsabili di sensibilizzare le famiglie sull’importanza di consumare acqua non contaminata e di mantenere i servizi igienici puliti e funzionanti.
Oltre alla componente idrica e igienico-sanitaria è stato necessario monitorare il livello di protezione e sicurezza, che in questi contesti possono facilmente essere messi in discussione. Lontane da casa, divise, senza i propri beni e la protezione della comunità da cui provengono, le famiglie di sfollati sono costrette quotidianamente a una condizione di estrema vulnerabilità. In partnership con UNHCR, in cinque centri di reinsediamento del distretto di Mueda, abbiamo avviato un sistema di raccolta dati per identificare e informare le istituzioni competenti su casi di furti, violenze, abusi, nonché su conflitti di natura etnica e religiosa. A soffrirne maggiormente sono i membri più fragili quali bambini (specialmente quelli non accompagnati), donne, anziani e disabili. In questo stato di precarietà e insicurezza che qualsiasi conflitto genera, la tentazione di qualche membro delle comunità ospitanti, degli attori umanitari o dei rappresentanti delle istituzioni, di approfittarsi di persone ormai disposte a tutto pur di ottenere un sacco di riso, un secchio d’acqua o uno spazio dove poter dormire, è da tenere in considerazione e monitorare con attenzione. Il lavoro che stiamo realizzando ha l’obiettivo di sviluppare un sistema di monitoraggio e una rete di connessione tra i centri di reinsediamento e i servizi distrettuali preposti a garantirne sicurezza e protezione, che permetta ai membri delle famiglie sfollate di condividere le principali difficoltà e paure che devono affrontare e di denunciare tutti i casi di violenza che hanno subito, inclusi quelli di corruzione e abuso a cui sono state costrette o indotte in cambio di favori.
Nel corso del 2022 lavoreremo per dare continuità alle attività realizzate in ambito igienico-sanitario, di protezione e per ampliare gli interventi anche alla nutrizione e all’educazione, in modo da far fronte alle necessità sempre più complesse di persone private della propria casa, della propria identità, di fonti di sostentamento e dell’accesso all’istruzione.