Atterro a Kathmandu di pomeriggio, in un grigiore che non mi aspettavo e che annulla i colori asiatici tanto forti e netti a cui ero abituata. Mi accolgono Fabio, Country Director di CCS Nepal, ossia l’uomo per il quale (e grazie al quale) ho fatto le valige e ho deciso di trasferirmi a Kathmandu, e Pasang, un sorridente dipendente di CCS. Unisco i palmi delle mani, le avvicino al petto, inclino un poco la testa e pronuncio per la prima volta in terra nepalese la parola “Namaste”, in quella che diventerà da subito una pratica quotidiana. Pasang mi cinge il collo con una kata, una sciarpa di origine tibetana che si regala per dare il benvenuto a chi arriva o per augurare buon viaggio a chi si accinge a partire.
Nel tragitto dall’aeroporto a casa mi si apre davanti agli occhi Kathmandu in tutto il suo instancabile movimento, il traffico, il rumore incessante dei clacson che suonano per sorpassare, per avvertire, per fermare, in sostanza per guidare, perché non ho mai visto, da quel giorno, un nepalese che non suonasse il clacson anche a strada vuota, semplicemente per annunciare il suo arrivo. La consapevolezza che già avevo che questa sarebbe stata diversa dall’Asia che avevo conosciuto in passato, intanto, era già diventata realtà.
È vero che, ovunque tu vada, hai bisogno di tempo per capire; è ancora più vero che, se il salto culturale che compi è così grande, devi darti molto tempo anche per imparare a interagire, a rispettare, ad ascoltare. Con gli occhi, con le orecchie, con il cuore. Devi imparare a stare un passo indietro, e a entrare in scena al momento giusto. Immergerti in mondi lontani t’insegna qualcosa che abbiamo perso, forse addirittura disimparato: aspettare. Osservare, ascoltare e aspettare. Darsi il tempo e rifare propria un po’ di quella lentezza che non significa ozio né apatia. E scoprire quanto, a stare fermi e zitti, con l’umiltà e la consapevolezza di non sapere, si abbia sempre tanto da imparare e scoprire.
In Nepal, forse, tutto questo è vero ancor di più. Sullo sfondo di questa città in perenne movimento, ma che alle nove di sera già tace al buio delle sue strade non illuminate, finalmente al riparo dal suono incessante delle macchine, io mi fermo a cercare di capire. Osservo i suoi edifici dalle forme più svariate, la vita all’angolo di ogni strada, cerco gli sguardi sfuggevoli e dal sorriso difficile, rimango attonita di fronte alle contraddizioni quotidiane e alla ricchezza e alla povertà estrema che convivono guancia a guancia, a prima vista quasi con indifferenza, come naturale corso delle cose. Cerco di dare un verso a questo popolo, la cui storia si confonde con il mito, un popolo dalle diverse religioni (almeno quattro principali), cui appartengono più di cento gruppi etnici, con venti lingue principali e altre minori; un popolo appena uscito da una feroce guerra civile; provo a capire cosa voglia dire vivere in un sistema di caste (solo formalmente abolito), che funziona così da secoli, e m’interrogo sulla relazione tra sviluppo, cultura e tradizioni. Osservo i funzionari statali in camicia, le donne nei loro sari, stupendi e coloratissimi vestiti che spesso si usano nelle occasioni speciali, e quelle che, invece, spaccano le pietre; i bambini che tornano da scuola nelle loro uniformi e quelli che giocano scalzi davanti ai piccoli negozi dei loro genitori. Osservo la noncuranza con cui camminano per la strada diventata fango dopo una lunga pioggia, mentre io mi chiedo perché non abbiano iniziato i lavori su una strada – che prima era asfaltata – alla fine della stagione delle piogge invece che all’inizio. Chi lo sa, forse se lo chiedono anche loro. Mi innervosisco quando non mi fanno attraversare la strada perché io, in quanto pedone, sono l’ultima della catena viaria, e mentre cerco di avanzare lentamente sulle strisce le macchine e le moto arrivano a tutta velocità, trovando il modo migliore per scansarmi, suonando il clacson. Sono perennemente invasa da stimoli sensoriali e, spesso, la sera, sono distrutta pur senza aver poi fatto nulla di particolare. Ricerco il silenzio, perla rara in questa città. Lo trovo a Bodhnath (chiamata anche Boudha), angolo di pace in mezzo alla città. Boudha è lo stupa più grande dell’Asia, intorno al quale piccoli fiumi di fedeli compiono il giro della cupola (rigorosamente in senso orario) facendo girare le ruote di preghiera, sotto gli occhi penetranti e ipnotici del Buddha. Monaci tibetani con le loro teste rasate, i loro mālā (i rosari buddhisti) e le loro bellissime tuniche ocra e rosso scuro camminano per le stradine che si infilano tra una casa e l’altra, tra candele di burro e iconografie buddhiste. Un tempo importante passaggio lungo la rotta carovaniera tra Lhasa e Kathmandu, dove i mercanti tibetani pregavano per il loro viaggio prima di partire, con i loro yak, alla volta dei passi himalayani, oggi Boudha è per lo più vissuta da rifugiati tibetani fuggiti dalla Cina nel 1959.
Il mio momento preferito è quando il sole sta calando, i turisti abbandonano lo stupa e gli unici rumori sono il vociare delle preghiere, dei negozi e delle chiacchiere. E’ allora quando mi godo la vista delle colline intorno a Kathmandu, dietro le quali il sole si va a nascondere, e mi perdo un po’ negli occhi ipnotici di Buddha, godendomi la pace.
Basta poi uscire dalla magia di Boudha per tornare, in un attimo, al caos, al traffico e al rumore. Ma intanto mi gusto il fatto di vivere in Asia, in Nepal, e di aver ancora tutto da imparare, tornando un po’ bambina e rispolverando quegli occhi ingenui e curiosi di chi non sa nulla e vuole capire tutto, quei meravigliosi occhi che perdiamo crescendo, riempiti di pregiudizi e arroganza.
La frattura del cambiamento è quella che impone la riflessione, e suscita ogni giorno qualche domanda in più. Risposte, quelle, non solo spesso non ne arrivano, ma ce n’è sempre un po’ di meno. Se ne vanno pure quelle che c’erano prima. Non parliamo poi di quando, negli slums sul fiume Bagmati, in una puzza che non credevi di aver mai annusato prima, vedi che alcune persone vivono in “case” le cui quattro pareti sono formate da teloni di plastica, e su uno di questi campeggia la scritta “Samsung”. E in un attimo ti dici con parole quello che già sai, ma che dire ad alta voce rende irrimediabilmente reale: la nostra spazzatura, derivante da un bisogno indotto, incarna la loro necessità di un tetto sulla testa.
E, a quel punto, non solo non hai risposte, ma non sai nemmeno più quale sia la domanda giusta da cui partire. Ma sai, con più certezza di prima, che fare qualcosa non è una scelta ma una responsabilità. E non in nome della carità, ma in nome della giustizia, del bisogno di far valere diritti negati, sulla carta universalmente riconosciuti ma troppo spesso dimenticati, calpestati, cancellati, ignorati.
Cammino per le strade impolverate di questa metropoli, in perenne bilico tra la costruzione e la distruzione, invasa dal nuovo (che pare già vecchio) ma in cui è presente anche quell’antico affascinante, legato alla tradizione, a un mondo che sta svanendo e al contempo si tramanda nel modo di vestire, nei tikka rossi che portano sulla fronte (quel segno rotondo, apposto con il pollice, che se portato all’attaccatura dei capelli significa che si è sposati, se portato in mezzo alla fronte è un segno benaugurante), nel cibo che si mangia con le mani (il piatto principale è il dhal bhaat, riso con le lenticchie), nella splendida architettura newari che si riesce a vedere in alcune parti della città. In fondo, non è nulla di diverso dal costante conflitto tra la tradizione e la modernità, che però qui ti assale quotidianamente, visivamente. E quando vedi le ragazze più giovani che iniziano a “vestirsi come noi”, speri sempre nell’avverarsi di quel connubio tra lo sviluppo e il mantenimento della propria identità, immaginando un giorno donne sempre vestite nei loro sari ma non più vittime di violenze, non più discriminate o obbligate a sposarsi ancora bambine.
Incrocio spesso gli sguardi dei bambini, che qui a Kathmandu sono quasi gli unici che si posano con curiosità su questa pelle bianca, questi occhi tondi e questo naso lungo. Gli adulti forse sono troppo occupati, o semplicemente molto abituati alle orde di turisti che passano per Kathmandu prima di perdersi nella bellezza delle vette dell’Himalaya. O, semplicemente, i bambini sono i più curiosi e quelli che non hanno vergogna nel piantare i loro occhi scuri nei tuoi e lasciarceli per il tempo necessario a studiarti, così come del resto accade in tutto il mondo. Guardo loro, penso ai bambini delle slums, ai bambini e alle bambine sostenuti da Helpcode e alla speranza che quel futuro in cui potranno decidere della loro vita e aver la possibilità di compierla come meglio credono non sia troppo lontano.