Ogni mattina esco di casa alle sei e mezza per andare a lavoro e cammino un’ora attraverso la città che si sta risvegliando, già attiva ma non ancora nel pieno del suo fermento. Questa passeggiata mattutina mi consente di osservare stralci di quotidianità nepalese, che spesso si ripetono uguali ma a cui non ci si abitua facilmente. Incontro sempre gli stessi tre bambini, allo stesso angolo (di fronte a un Hotel di lusso) che si dividono il contenuto della spazzatura accumulata accanto al marciapiede, sotto lo sguardo dei cani randagi; vedo i negozi che aprono, espongono la merce, qualcuno che seduto legge il giornale; vedo aprirsi una piccola porta di legno colorata, a livello della strada su cui cammino, e do una fugace occhiata all’interno: tre cubicoli bui, un tavolino appoggiato a uno dei muri spogli, un paio di scarpe per terra, due piccoli fornelli con una padella sopra. Null’altro. Non un oggetto che non sia di primaria necessità, non un orpello, un confortante angolo che dica “casa”. L’unica luce viene dalla strada su cui cammino, dall’altra parte dell’abitazione il muro senza finestre crea una barriera di oscurità. Probabilmente, nascosto dietro l’angolo e impedito alla mia visuale, c’è il letto su cui riposano. Un uomo sta uscendo con la sua bici, pronto a iniziare la sua giornata di lavoro, durante la quale raccoglierà bottiglie di plastica, carta o vetro da rivendere in giro per Kathmandu. Alle sue spalle la moglie lo osserva uscire, e incrocia il mio sguardo. Mi immagino che gli abbia appena augurato una buona giornata, mentre lo aiuta a spingere fuori casa la bici, attraverso quella porta troppo piccola per permettere a entrambi di uscire contemporaneamente.

Poco più avanti un uomo con un cappello in testa e avvolto in un pesante giaccone, troppo pesante per il caldo che ancora c’è, fruga in un sacchetto della spazzatura insieme a un cane. All’angolo successivo una mamma e i suoi bambini porgono le mani in avanti, in segno di richiesta, mormorando parole a testa bassa ma cercando i miei occhi.

Mi si mostra in tutta la sua crudeltà il volto della povertà urbana, quella che relega agli angoli grigi tra cemento ed edifici, che convive con il comfort di chi, invece, dalla vita ha avuto di più, quella che non lascia nemmeno la consolazione della natura, del silenzio, dell’aria pulita. O almeno così penso io, che la povertà non l’ho mai vissuta.

Mi torna alla mente il viaggio di qualche settimana fa, alla volta della provincia di Kavre, in una meravigliosa valle circondata da montagne. Mi tornano alla mente le semplici case, le capre, i bufali e le mucche legate fuori, la legna accatastata, il verde brillante dei campi di riso.

 

 

Nelle ore passate in macchina su strade strette e dissestate, a fianco delle montagne e spesso troppo vicino al ciglio, abbiamo incontrato diverse persone che ci guardavano, incuriosite e sorridenti. Nei campi si vedevano, da lontano, greggi al pascolo; di fianco a noi passavano uomini e donne (e a volte anche bambini) che portavano sulle spalle cesti e sacchi carichi e, sicuramente, pesanti. L’aria ha tutt’altro odore, fuori dallo smog di Kathmandu, i colori sono più vividi e lo spazio si riappropria del silenzio o dei rumori di una vita contadina. Io tiro un sospiro di sollievo, nonostante i sobbalzi e gli scossoni della macchina, ma cerco di immaginare le difficoltà di una vita votata alla sussistenza. Immagino cosa significhi condurre un’esistenza che non concede il lusso della scelta e penso che, se la povertà rurale sembra un po’ meno spietata ai miei occhi, forse è solo perché non ne conosco davvero i risvolti.

Ripenso a quel viaggio: ci stiamo dirigendo verso la scuola di Panchakahaya, nell’area di Timal, nel distretto di Kavre, in cui Helpcode ha lavorato per dieci anni, ottenendo per tutte le scuole della provincia il raggiungimento del livello più alto in termini di qualità dell’educazione e di salute dei bambini, riconoscimento che arriva direttamente dal governo nepalese. Proprio per questo motivo Helpcode ha terminato il suo compito qui e si accinge a spostare il suo intervento verso zone del Nepal in cui il bisogno è maggiore. Appena arrivati alla scuola, i bambini si dimostrano timidi ma incuriositi, e sussurrano “Namaste” giungendo le mani davanti al viso e accennando piccoli sorrisi. Mi basta, ovviamente, tirare fuori la macchina fotografica per sconfiggere in un attimo le barriere di diffidenza che ci dividono. Si spingono per finire davanti all’obiettivo, ridono, vogliono vedersi subito in foto ma al contempo se ne vergognano, scoppiando in risolini imbarazzati. Provo a pronunciare un paio di parole in nepalese, suscitando l’ilarità generale.

 

 

Dopo un paio d’ore salutiamo i bambini e i professori per dirigerci di ritorno a Kathmandu, e mentre osservo i sali e scendi continui delle strade, che loro compiono ogni giorno a piedi per andare a scuola – qualcuno anche per due ore ad andare e due ore a tornare – penso che loro sono obbligati a capire, molto prima di noi, quanto studiare sia un diritto molto più che un dovere, un privilegio negato a così tanta parte di mondo, che comporta sacrifici che noi neanche immaginiamo ma che apre le porte al proprio futuro, alla conoscenza, alla comprensione, alla possibilità di scegliere. Perché, come ho letto su un muro di una strada di Kathmandu, “l’apprendimento è più grande di qualunque altro bene al mondo”.