Sulla parete di una scuola di Timal, una zona della provincia nepalese di Kavre, ho letto questa scritta, dipinta a mano: “Mettiamo fine al sistema delle doti matrimoniali. Rendiamo le nostre figlie indipendenti attraverso l’educazione”.
Una frase semplice da cui si evince, però, l’importanza dell’educazione in tutta la sua complessità, non solo intesa come accesso all’istruzione ma anche come attività educativa e culturale nella sua interezza. Il problema dell’educazione è legato a doppio filo a quello del genere, in un paese in cui solo il 34,9% delle donne ed il 48,8% delle persone oltre i quindici anni sa leggere o scrivere. Solo il 17,9% delle donne oltre i venticinque anni ha ottenuto un’istruzione secondaria completa, contro il 39,9% degli uomini. Statistiche che raccontano come le famiglie continuino a prediligere l’educazione dei figli maschi mentre le figlie vengono impiegate per lavori domestici, in cucina, nella raccolta della legna o a pascolare le greggi.
Per le famiglie una figlia che segue tutte queste attività è un lavoratore in più nel nucleo familiare. E comunque, anche quando le ragazze frequentano la scuola, sono gravate da queste attività al mattino e alla sera, spesso a scapito degli studi.
E c’è di più. Nelle regioni più povere del Nepal è ancora tristemente popolare ed estesa la pratica di dare in spose le bambine, forzate a diventare piccole donne, spose e madri in età troppo giovane: in Nepal il 41% delle adolescenti tra i quindici e i diciannove anni è sposata.
Una delle conseguenze più gravi di questo triste fenomeno è rappresentata dalle morti durante il parto o durante queste gravidanze precoci. Per non parlare dell’alta probabilità di contrarre l’HIV, degli abusi e delle violenze a cui queste bambine sono sottoposte; senza pensare ai loro diritti preclusi e alla loro infanzia stroncata, e al problema che ricade su tutta la comunità: un bambina già madre è una persona che viene emarginata, costretta ai lavori più umili, che abbandona la scuola e si ammala più facilmente e che non è in grado di crescere adeguatamente il proprio bambino. Un’altra pratica diffusa in Nepal, soprattutto nelle regioni occidentali, è quella delle “Kamalari”, ragazze giovanissime (soprattutto della casta Tharu) vendute dalle loro povere famiglie per lavorare come schiave e che diventano, ovviamente, vittime di violenze e abusi da parte dei loro padroni.
Il governo e il mondo delle ONG sta ponendo molta attenzione su queste discriminazioni, al punto che lo stesso governo nepalese ha dichiarato illegale la pratica delle spose bambine, firmando la risoluzione ONU contro questa usanza; ha ufficialmente abolito la schiavitù; ha emanato una legge che prevede una partecipazione al governo del 30% delle donne. Più di una ONG locale, inoltre, si occupa di questioni di genere.
Anche CCS Nepal ha presentato, insieme a un partner locale, WVAF (World Vision Advocacy Forum Nepal), un progetto per aiutare sia psicologicamente sia economicamente le donne ex combattenti che sono state vittime di violenza. Durante i dieci anni di guerra civile l’esercito del governo e i combattenti Maoisti si sono macchiati di violenze fisiche e sessuali, molte delle quali non sono mai state denunciate, e le vittime sopravvissute sono rimaste isolate e impossibilitate ad avere accesso a giustizia e risarcimenti. Da qui la necessità di lavorare su questi temi.
Malgrado questi provvedimenti, secondo il Women’s Centre Rehabilitation Nepal, i dati (secondo uno studio del 2012) sono molto sconcertanti e la violenza contro le donne è un trend in crescita: il 52% di donne soffre di pressioni psicologiche; solo il 25% delle donne sopravvissute ad atti di violenza cerca supporto medico; l’86% di donne non è sicura nella propria comunità. E, cosa ancor più drammatica, di tutte quelle uccise il 91% è vittima di una persona conosciuta. La violenza domestica è cronica e i crimini non vengono denunciati.
C’è bisogno innanzitutto di un cambiamento culturale. L’attenzione è, giustamente, concentrata su educazione ed empowerment (rafforzamento, valorizzazione) delle donne, ma in questo processo c’è bisogno di coinvolgere anche gli uomini e i ragazzi, perché siano i primi a vedere le donne e le bambine come individui con uguali diritti e possibilità, e perché siano loro stessi in primo luogo d’aiuto nell’interrompere le pratiche che, anche se illegalmente, continuano ad alimentare spirali di violenza e schiavitù.
È necessario lavorare perché alla donna sia riconosciuto quel ruolo – che di fatto ricopre – di motore di cambiamento e sviluppo per la propria comunità, e perché sia vista come soggetto cui devono essere riconosciuti i propri diritti. È necessario dare alle bambine, le donne del futuro, la possibilità di scegliere, per permettere loro di essere cittadine attive e participi allo sviluppo, anche attraverso un processo educativo completo e di qualità. Il lavoro che Helpcode in Nepal, sta portando avanti.