Paolo mi passa a prendere poco prima delle otto su una grande arteria cittadina. Il traffico. A Maputo il traffico supera tutto ciò che potessi immaginare. Certo, se uno non è abituato al volante a destra sembra tutto strano e pericoloso, ma la jungla urbana è pazzesca, spaventosa, e Paolo (il responsabile paese di Helpcode) mostra di essersi mimetizzato tra i locali perfettamente, guidando sicuro e deciso fino a Matola. Bisogna dire che a osservare bene la “selva di carros”, non si vedono macchine sfrecciare a velocità elevate, non è questo il punto. È solo una sensazione di velocità, stimolata dal caso totale con cui affrontano corsie e direzioni, e te ne accorgi osservando le macchine singolarmente; a quel punto razionalizzi ed impari a girare come un africano tra le macchine, mantenendo sempre alta l’attenzione.

Matola è completamente diversa da Maputo. È una città in via di costruzione. Costruirsi una casa a Matola costa meno che un affitto a Maputo, così molte persone dell’emergente classe media comprano terreni nella zona, ed edificano villette. Sono molto carine, certo, ma sembra di camminare per Miami: polvere, palme, sole e villette. Anche i servizi sono occidentali, con pochi Xapa, e grandi supermercati. Continua il dilemma: meglio società tradizionali che soddisfino il nostro gusto di turista, ma piene di mortalità infantile e spesso violenza, o abbondanza economica e omologazione?

Finalmente vedo l’ufficio di Helpcode. Sotto un sole già caldo alle nove del mattino, una guardia bassa di statura, dalla divisa verde e dal sorriso aperto e contagioso, ci apre il cancello, ci saluta con molto rispetto e vedo che alle sue spalle c’è un’incantevole casetta in stile portoghese, bianca e a un piano solo, con la porta sempre aperta. Il cortile è condiviso con altre attività, credo per collaborare con la popolazione adiacente: il garage è occupato da una bella ragazza che fa i capelli alle signore, e ci guarda con lo sguardo misto tra il malizioso e il rispettoso, come la maggior parte delle donne qui.

 

 

 

Il personale è incantevole: meno di dieci mozambicani dolci e molto cordiali, che ridono sempre e si sforzano di comunicare con il mio pessimo portoghese, e dopo aver deciso alcune cose con Paolo passo la giornata ad aiutarli a imbustare, come tante volte ho fatto a Genova.

 

 

È venerdì, gli impiegati iniziano ad andare a casa presto; così rimango quasi un’ora senza nulla da fare, e decido di mangiare della frutta. La guardia, con cui ho passato molto tempo nelle pause dal lavoro, mi pare possa svolgere questo ruolo sempre meno, vista la sua natura mansueta e la sua bassa statura. Mi indica il mercato più vicino. In fondo alla strada, per un centinaio di metri, decine di donne espongono per strada, a terra o su casse di legno, frutta e verdura, carne in secchi di plastica e oggetti vari.

 

 

Quando torno è ora di andare, e tornando verso Maputo noto un quartiere molto grande, il cui perimetro costeggia la strada per almeno cinquecento metri. Chissà com’è la vita all’interno, chissà com’è crescerci.

Il venerdì sera faccio la conoscenza di due luoghi classici della movida di Maputo: l’Associação dos Musicos, e il Pulmão. Il primo è un bel locale di musica dal vivo, dove si concentrano tutti gli europei che qui formano un gruppo unico, alimentando la sensazione di essere in erasmus a Lisbona, più che in Mozambico, il secondo è una chicca. È un mercato popolare di giorno, i cui perimetri di lamiera la notte si alzano, aprendo lo spazio a piccoli bar, dove il gestore passa le bevande attraverso una grata di ferro, e chiedendosi logicamente il motivo di tale precauzione, si rimane piuttosto perplessi. Questo angolo della città è frequentato solo da Mozambicani, e fino a tarda notte le macchine attrezzate restano aperte per riprodurre musica a tutto volume, rendendo il posto molto interessante.

 

 

Il fine settimana di festa porta con sé i riti religiosi, e a questo non si sottrae certo Maputo. Dalla mattina fino a notte fonda inizia il suono di tamburi, e una voce maschile monotona e precisa chiede ad un coro di donne di rispondere con canti lenti e ritmati. Talvolta il ritmo sale, e una voce singola di donna urla con tutta la forza dei polmoni le sue preghiere divine. Questo è il genere di cose che si vede nei film e nei documentari, e che vedere con i propri occhi lascia davvero molto colpito, sono cose per cui penso sia valsa la pena venire qui: diversità e particolarità.

Prima di cena andiamo all’inaugurazione di un negozio di vestiti, gestito da un’amica mozambicana di Daniele, Ricky. È nella Baixa, in un palazzo portoghese. Il palazzo è bello, con un grande porticato, fatiscente e molto sporco. Il negozio è un buco luminoso nel muro, dentro è spoglio ma molto carino, c’è solo una macchina per cucire e dei tessuti esposti. Mi colpisce il contrasto tra la luce del negozio e il buio che domina il resto del porticato; a pochi metri dalla festa d’inaugurazione, delle persone dormono a terra, circondati dai loro rifiuti. Questi contrasti sono tipici e molto forti.

 

 

La sera arrivo nella casa che mi ospiterà. Il mio coinquilino è italiano, Daniele, un cooperante per una ONG di cuneo, LVA. Il palazzo non ha portoni, ma tre guardie presidiano costantemente il posto. Le porte sono doppie, una normale e una di ferro, chiusa da un lucchetto. Ogni finestra ha le inferriate, e dal cortile arrivano solo rumori inquietanti: latrati di cane, urla, sirene e rumori di motori industriali. Adesso mi sento in Africa, e il misto tra paura ed eccitazione mi sconvolge. Sento un bisogno di restare vicino al fuoco stando attento a non bruciarmi, ma oltre a chiedermi se sia sana come aspirazione, cioè fino a che punto sia giusto rischiare per crescere senza correre veri pericoli, mi chiedo come mai la paura non mi immobilizzi, vedo che tenendomi occupato riesco a controllare tutto, e anche se non posso dire di essere del tutto su di morale, mi sento in grado di continuare.